Sigfrido Ranucci: "Fare Report è complicato. Bisogna essere strutturati"

Intervista al conduttore del programma d'inchiesta di Rai3: "La forza di un giornalista è resistere. Mi preoccupa la memoria corta. Ma sulla Mafia non molliamo"

Fonte: archivio

L’alt(r)o giornalismo? Possibile ma difficile. Necessario eppure esclusivo. I giornalisti sono come i loro lettori, i telespettatori: non sono tutti uguali sebbene le regole siano le medesime, per ciascuno. Carte, deontologia, ferri del mestiere: non fanno la differenza, piuttosto livellano. Allora: cos’è che incide fino a creare dicotomie manifeste tra un certo modo di approcciarsi alla professione e un altro? Sono gli argomenti, è la selezione dei fatti, la capacità di indagarli? O piuttosto il fine? O piuttosto gli obiettivi? È una certa idea di mondo e di comunità? O la proiezione di sé, in quel mondo e in quella comunità che tendono verso un personalissimo ideale?

Mentre mi arrovello, lui replica con una manciata di parole e traccia il solco.
Occorre essere strutturati, fisicamente e psicologicamente.

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La risposta diventa la chiave per aprire le porte alla lunga telefonata con Sigfrido Ranucci. È come se dicesse: c’è la verità dei fatti, il cui svolgimento è la sovrapposizione di una serie di avvenimenti, parole e situazioni circostanziali. Il giornalista la racconta. Poi, c’è il romanzo dei fatti: ciò che li determina e, oltrepassandoli, li definisce, li articola, li dirama. Ci sono le cause e le conseguenze. Ci sono gli antefatti e gli sviluppi. Quali e quanti "chi". Quali e quanti "perché". Solo alcuni si incuneano per quei sentieri, picchiano le suole su quel terriccio, si addentrano in quei cunicoli.

61 anni ma ne dimostra meno. Il fisico è quello di uno sportivo. Quanto è importante la cura di sé?
Cerco di condurre una vita sana. Non bevo e non fumo. Lo sport è una componente fondamentale: da ragazzo sono stato un calciatore, nuotavo, giocavo a tennis. Ho sempre praticato qualche attività fisica poi, dalla pandemia in avanti, ho perso l’abitudine e ne sento la mancanza. Ero un ragazzo irrequieto: quella frenesia mi è rimasta. Sono sempre stato adrenalinico, lo sport mi ha aiutato a canalizzare l’energia. Sono cresciuto con genitori attivi: papà è stato sempre un agonista, con metastasi sparse era sul tapis roulant due giorni prima di morire.

Comincio a modellare la figura dell’alt(r)o giornalista, irrompe di nuovo lui e aggiunge un tassello.
È complicato fare un certo tipo di giornalismo se si è spesso sotto minaccia. E non parlo solo di minaccia fisica.

Penso alla sua vita sotto scorta: da agosto 2021 protetto dallo Stato per un piano omicidiario progettato dalla criminalità.
Ci sono cose peggiori. La quotidianità è più complicata, qualche libertà viene a mancare. Vivi con la sensazione di avere la testa in un sacchetto di plastica. Ma la scorta è solo una delle conseguenze, non la causa. Servono altre tutele.

Quali?
Ormai sono 172, tra querele e richieste di risarcimento danni. Si fanno miriadi di battaglie sul garantismo ma nessuno si espone per sostenere un giornalismo più libero. Siamo colpiti da delegittimazioni e querele temerarie, sporte senza i necessari presupposti. La verità di un fatto è sufficiente per sostenerne il peso ma può non esserlo per reggere il fardello delle querele preventive, sistematiche. Penso a tutti i freelance che non hanno alle spalle una struttura: io ho la fortuna di lavorare per una grande azienda, la Rai mi offre la tutela legale anche se potrebbe rivalersi su di me, figuriamoci quanto diventa difficile per un collega cui manca tale forma di sostegno. Eppure soprattutto adesso, in un momento storico nel quale mancano editori liberi e puri, sono testimone diretto della grande passione che anima i giovani che si avvicinano a questo mestiere.

Si specchia mai in quei ragazzi?
Assolutamente. Anni fa, da giovanissimo, passai davanti alla sede romana della Rai e mi dissi: io lavorerò qui. Pensavo al successo e alle relazioni sociali che può darti la notorietà. Poi ho scelto una strada diversa quando ho cominciato a lavorarci: avevo un’altra età e un’altra maturità e, per quello che racconto, non ho inviti nei salotti romani.

Ranucci, classe 1961, giornalista, autore e conduttore televisivo. Dipendente Rai dal 1989, aveva 28 anni. Ha preso parte a una delle pagine di giornalismo meglio riuscite del servizio pubblico, RaiNews 24, primo canale all-news prodotto interamente in digitale e diretto fin dagli esordi (1999) da Roberto Morrione.

Cosa rappresenta la Rai?
È uno straordinario luogo di libertà nel quale è possibile divulgare cultura e denunciare i privilegi. Il compito di un servizio pubblico è mettere a disposizione dell’utenza conoscenza e sapere.

Ranucci: inviato nei Balcani durante il conflitto e a Sumatra, appena dopo lo tsunami del 2005; ha seguito nel 2001, da New York, gli attentati dell’11 settembre; ha denunciato l’utilizzo di fosforo bianco da parte delle truppe Usa a Falluja, durante la guerra in Iraq; ha trasmesso (settembre 2000), nel corso di un’inchiesta sulle stragi di mafia, l’ultima e fino ad allora inedita intervista al giudice Paolo Borsellino, realizzata per Canal+ dai due giornalisti francesi Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo il 21 maggio 1992 (due giorni prima della strage di Capaci, 59 giorni prima della strage di via D’Amelio). Coautore di Report, con Milena Gabanelli, dal 2006.

Morrione, Gabanelli. Aggiungo Gianni Minà.
Tre figure centrali. Minà è l’unico con cui non sono riuscito a lavorare ma è tra coloro che mi hanno appassionato al giornalismo. Le sue interviste riuscivano sempre: per la narrazione straordinaria con cui interrogava i potenti e rimetteva al centro i diritti dell’uomo e dei più fragili. Roberto Morrione è un maestro: mi ha sdoganato come giornalista d’inchiesta, con la pretesa che il giornalista giocasse sempre "a carte scoperte". Ricordo quella sul fosforo bianco: chi avrebbe mai avuto il coraggio, in quel momento, di accusare gli Stati Uniti – considerati i gendarmi del mondo nella lotta contro il terrorismo – di violare i diritti umani e usare armi chimiche? Falluja è stato uno schiaffo alla coscienza dell’Occidente. La Rai, per la prima volta dopo 50 anni, era al centro di uno scoop mondiale. Morrione mise il suo corpo davanti al mio: fece un editoriale dopo gli attacchi dell’ambasciata americana e, ricordando i grandi scandali scoperti dai giornalisti americani, chiarì la grande funzione del giornalismo, cane da guardia del potere. Poi Milena: sono cresciuto con la sua dedizione al giornalismo e il suo rigore e, nell’ottobre del 2016, mi ha onorato di un passaggio del testimone che ho sempre cercato di meritare, restando fedele allo spirito di Report. Il romanzo dei fatti.

Chi manca alla lista?
Ho iniziato in Rai come assistente al programma, mi sono nutrito di archivio e ho avuto modo di osservare i più grandi nello svolgimento della professione. Sergio Zavoli, Enzo Biagi, Michele Santoro, Brando Giordani, Gregoretti: è stata la scuola più formativa. Tutti avevano in comune la passione per il racconto, attraverso la scrittura e le immagini.

Cosa significa fare Report?
Avere il privilegio di lavorare per una delle migliori trasmissioni d’inchiesta del mondo. È un esempio concreto di cosa voglia dire studiare e approfondire, fare attività di controllo e verifica dei materiali, analisi scrupolosa e minuziosa. La squadra: 14 giornalisti di inchiesta e otto persone in redazione, un mix tra giornalisti che hanno fatto la storia, quelli che la stanno scrivendo ora e che la scriveranno. Report è una delle ultime palestre di giornalismo investigativo che esistono in Italia.

Cosa le restituisce il giornalismo?
Mi ha dato e continua a darmi tanto, credo sia uno scambio osmotico. L’ho capito quando, in occasione dei numerosi attacchi subiti e di un processo di delegittimazione e dossieraggi ad hoc, ho sentito la vicinanza di tantissime persone. Si voleva colpire, attraverso la persona, un programma che è luogo di giornalismo libero, indipendente, coraggioso e non condizionabile. Cosa c’è di peggio per quel potere che ambisce alle vetrine? È anche uno dei pochi programmi gestiti direttamente da dipendenti: la tentazione, da parte di agenti e case di produzione, di metterci mano è altissima.

C’è un’inchiesta cui è particolarmente legato?
Una delle cose più faticose è tenere alta l’attenzione sulla mafia, sul periodo stragista che molti tendono a limitare alla trattativa con lo Stato. Occorre fare piena luce sui queste vicende, soprattutto quando si cerca di archiviarle in fretta, chiuderle con un tappo. Nella puntata di Report dell’8 maggio torneremo a parlarne in maniera significativa, con servizi sulla rete di copertura di Matteo Messina Denaro; sulle falle del 41bis e sul tentativo di ammorbidirlo da parte dei boss; sui rapporti con gli uomini di Mafia Capitale e con l’estremismo eversivo.

E l’inchiesta mai nata: esiste?
Sì. È l’argomento del mio prossimo libro, uscirà il prossimo anno.

Distogli lo sguardo dagli ultimi frame di una puntata di Report, a volte; tiri fuori la testa dall’ultima inchiesta su crimine, malefatte, giochi di potere e hai bisogno d’aria, di respirare, di rimetterti in sesto. Sigfrido: non ha mai necessità di rifiatare? Non sente il bisogno di leggerezza?
La leggerezza è un sostegno. Anche quando diventa chiave di narrazione di fatti molto delicati.

È riuscito a capire cos’è il potere?
È la sensazione che qualcuno possa decidere della tua vita in qualsiasi momento. La forza di un giornalista è resistere: esercitare il potere non significa eliminare una persona, ma è sufficiente trasmettere la sensazione che possa farlo da un momento all’altro. Poi c’è il potere positivo, quello esercitato da Gandhi e Madre Teresa di Calcutta: persone il cui potere è contenuto nell’esempio e nel pensiero che hanno lasciato all’umanità.

Giustizia e verità sono sempre sinonimi?
Sì, se ci riferiamo a una giustizia e verità al di fuori dai canoni della giurisprudenza.

Quanto conta la fede?
È alla base del cammino. Non importa la meta ma il percorso: la fede è anello di congiunzione tra il voler credere e il sapere. La penso come Sant’Agostino: credere è toccare con il cuore.

In che modo ha inciso l’essere padre? Ed esserlo anche nell’assenza?
Ricordo che Emanuele, il più piccolo, quando ero inviato a New York e Sumatra faceva disegni sui bigliettini degli auguri: lo salutavo da un aereo e lui ricambiava da terra. Una volta mi scrisse: "Al papà più assente del mondo ma il miglior papà del mondo". Dopo Falluja e la messa in onda di immagini molto crude, che erano la testimonianza diretta di quel che accadeva, credo capirono davvero quale fosse il mio lavoro e il perché di tanti giorni lontano da casa.

Che epoca stiamo vivendo?
Quella della post verità. Mi preoccupa la memoria corta: il revisionismo appartiene al potere. È vero che la storia la scrivono i vincitori: l’esempio delle guerre è lampante. Prendiamo l’Iraq: sappiamo quale venne indicata come causa del conflitto ma, alla fine, le armi chimiche non sono mai state trovate. Ora la Russia. Si proclamano guerre dove si uccidono persone che non si conoscono per tutelare gli interessi di poche persone, che si conoscono ma non si uccidono.

Chi paga il prezzo del contesto che stiamo vivendo e che voi di Report raccontate?
C’è un grande senso di impotenza a volte nei nostri racconti: registriamo sempre di più una mancanza di visione da parte della classe politica e imprenditoriale. Si guadagna sulla precarietà altrui: lavorativa, umana, sanitaria, senza pensare che questo fa terra bruciata. Oggi chiudiamo ospedali, i privati si arricchiscono e i pronto soccorso sono sempre affollati. È un cambiamento epocale degli ultimi 15 anni. Come ci siamo arrivati? Cosa è successo? E la guerra: luogo di sofferenza per i più deboli, la metafora di una società più egoista, che si arricchisce a spese di un’altra che, intanto, si continua a indebolire. Più rendi fragili le persone, più hanno bisogno di aiuto: il paradosso è che, quell’aiuto, sono costrette a chiederlo a chi le ha indebolite.

Le nuove tecnologie hanno azzerato gli spazi, velocizzato tempi e flussi delle informazioni. Sono solo benefici o ci sono dei rischi?
Oggi è difficile capire se una notizia è vera o falsa: c’è chi fa il fact checking, ma chi controlla il controllore? Le nuove leve giornalistiche si formano dal punto di vista teorico e metodologico ma manca la palestra del giornalismo per strada. Costa soldi e fatica, non si fa quasi più. La nascita di molti canali all-news, la diffusione delle notizie sulle piattaforme social, ci consegnano informazioni in tempo reale senza che le si riesca a controllare o gestire. Viviamo di percezioni, storditi e disorientati dal flusso di notizie. Le più cliccate sono quelle che attirano di più, rispondono alla logica degli algoritmi, non di un media che verifica.

Non necessariamente vere, quindi.
Con l’avvento di Chat Gpt (strumento di OpenAI che mira a rendere l’interazione con i sistemi di intelligenza artificiale più naturale e intuitiva, ndr) un amico ha provato a ricostruire la mia biografia: si dice che ho lavorato per l’Espresso, fatto documentari in Siria e condotto Presa Diretta. Nessuna delle tre informazioni è vera.

Cos’è rimasto integro del ventenne che è stato?
La voglia di combattere per una società migliore, per i più fragili e per gli indifesi nonostante le certezze siano col tempo crollate.

Quale film non può dimenticare?
Le vite degli altri.

Chi sta leggendo?
Carofiglio. In cima a tutti metto Gabriel Garcia Marquez, Eduardo Galeano e Jean Claude Izzo.

Suonava la chitarra: che rapporto ha conservato con la musica?
La ascolto. Fedele ai miti di sempre: Bruce Springsteen, i Rolling Stones e Antonello Venditti. Mi piace molto Madame, è una poetessa. Abbiamo usato alcune sue canzoni per gli spot di Report. La primavera della mia vita è una canzone bellissima. Mi piace anche Ultimo.

Dice Ultimo e sorrido, non se ne accorge. Non può che piacergli. Penso al peso e all’importanza di un nome.

Sigfrido. Da sigu, vittoria, e frid, pace. Eroe della mitologia germanica. Ha mai avvertito il peso e l’importanza del suo nome?
Sarebbe colui che è tranquillo nella vittoria. O colui che assicura, con la vittoria, la pace. Come no, è un nome di peso: nel mio caso, soprattutto perché apparteneva a mio nonno, cui lo diede suo padre per l’amore nei confronti di Wagner (Sigfrido è il terzo dramma musicale della tetralogia L’anello del Nibelungo, composta dal tedesco, ndr). Avevo un legame fortissimo col nonno. Quando mi portava all’asilo, per un’ora abbondante me lo faceva marinare: andavamo prima a prendere maritozzi con panna e coca cola. Poi mi portava a casa. Da lui ho ripreso l’ironia, e l’orgoglio di non abbassare mai la testa davanti a un nemico, come non l’ha abbassata lui quando i fascisti gli imposero di bere olio di ricino.

Auden Bavaro

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