La Confessione di Peter Gomez: "La Rai non mi ha cercato. Ho già rifiutato il Tg1"

A tu per tu con il giornalista che torna su Nove con le interviste che scandagliano il lato oscuro del successo. I primi ospiti sono Arisa e Danilo Toninelli

La Confessione Peter Gomez

C’è attesa per la nuova stagione – la quattordicesima – de La Confessione, in onda da stasera, venerdì 26 maggio, sul Nove dalle 22.45: oltre 150 interviste dopo, Peter Gomez torna col programma cult e inter-generazionale che ha tolto i veli ai personaggi più rilevanti della politica, dello spettacolo e della cultura nazional-popolare. Mentre lo contatto, sta lavorando alle interviste di Arisa e dell’ex ministro, Danilo Toninelli. Gli ospiti della serata. Ma ci arriviamo.

Ci sono almeno un paio di questioni preliminari da sbrigare: lo chiede la stretta attualità e lo suggeriscono i trend. Gomez, da qualche giorno, è in tendenza.

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Marco Travaglio l’ha nominata condirettore del Fatto Quotidiano con l’intenzione di dare un’accelerata all’integrazione tra web e cartaceo
Sì, è così. Sono direttore, dal 2009, della versione online del Fatto e dirigo anche FQ Millennium (sito e rivista mensile del quotidiano, ndr): dal prossimo primo settembre, anche condirettore del cartaceo. Cercherò di garantire la mia esperienza a un giornale che funziona bene e i cui dati di vendita consentono l’autosussistenza. Sarò una figura molto operativa, Marco resta il Direttore.

Fresco di nomina, Gomez conferma quello che è emerso nelle ultime ore. Poi, a ruota, smentisce categoricamente l’altra parte del chiacchiericcio. I rumor, le voci di corridoio, le indiscrezioni: lo si accosta alla tv di Stato, ipotizzando un viaggio di sola andata, da Milano – dove risiede stabilmente – a Roma.

È vero che nell’immediato futuro c’è la Rai? Lo dicono in tanti: Gomez al posto di Fabio Fazio
Sto leggendo anche io tante pagine a tal proposito. Le leggo e rido. Ascolto le voci: infondate. La verità è che non mi ha contattato nessuno, si parla del nulla. Mai ricevuto nessuna telefonata. Se arrivasse? La prenderei in esame, certo. Ma non è accaduto.

Insomma, con la proposta giusta…
Ho detto no una volta: nel 2018 mi hanno offerto la direzione del Tg1, ho rifiutato. Avrebbe significato indossare la casacca gialloverde (era il periodo del Governo Lega-M5S, ndr), la Rai è pur sempre espressione del Governo. Però, dovessi condurre una trasmissione, sarebbe diverso. Mi sentirei libero, peraltro chi mi conosce lo sa: non sono condizionabile, chiunque provasse a contattarmi lo farebbe solo dopo averlo messo nel conto.

Restare a Nove non sarebbe un sacrificio
A Nove sto benissimo. Il gruppo Discovery è forte, creativo, indipendente, innovativo, hanno idee vincenti e la capacità di sperimentare. Nessuna ingerenza, mai accaduto. E nessuno guarda allo share con ossessione: si punta in primo luogo sulla qualità del prodotto. Il gruppo, con l’ingresso di Warner, può diventare ancora più importante nell’intero panorama televisivo nazionale. Le prospettive del network sono ambiziose e poi, adesso, è arrivato anche Fazio. Maurizio Crozza c’è già. Si tratta di due tra i migliori nelle rispettive professioni.

Gomez, classe 1963, è nato a New York per un incastro del destino: papà Filippo lavorava, ai tempi, presso la sede newyorchese del colosso pubblicitario Bbdo. Ha sposato Fabricia, che lo raggiunse da Milano, cui fecero ritorno nel 1965 ma la metropoli meneghina è stata solo tappa estemporanea. Da Milano a Verona in poco tempo: è nella città scaligera che Gomez muove i primi passi nel giornalismo dopo aver intrapreso gli studi universitari sotto le guglie: Giurisprudenza alla Cattolica. Accetta uno stage gratuito presso l’Arena, di nuovo Verona. Si fa le ossa col direttore Giuseppe Brugnoli.

Poi al Giornale, con Indro Montanelli. Anni formativi, impegnativi, irrinunciabili
Quanto manca Montanelli! Avversato in maniera trasversale: la sinistra lo considerava fascista, la destra lo ha sempre reputato un traditore, ancor di più quando vi fu la frattura con Silvio Berlusconi che si avviava al corso politico. Era libero, Montanelli. Diceva che gli unici conti che bisogna fare sono quelli con se stessi, quando alla mattina ci si guarda allo specchio.

Giornalista, saggista, autore e conduttore televisivo, analista: quali sono i panni che le si confanno di più?
Tutti. Quando si hanno storie da raccontare, il mezzo diventa solo un dettaglio.

Cosa guarda in tv?
La guardo poco. Manca il tempo. Ho provato, a volte, a dare credito a qualche serie tv, ormai le seguono tutti: io, però, dopo un paio di puntate non sono mai riuscito a proseguire. Guardo lo sport. Monitoro le trasmissioni e i talk di politica e attualità soprattutto per lavoro.

Gli stessi talk dove tutto è diventato opinione non supportata dai fatti
È verissimo: l’avvallo dei fatti alle tesi sostenute è necessario. Il pluralismo è essenziale ma spesso manca l’incidenza di chi conduce un programma, che dovrebbe dirigere il traffico e non lo fa.

È arrivato alla quattordicesima edizione de La Confessione. Era tanto ottimista, all’inizio?
È un format che funziona perché insistiamo sull’importanza delle storie. Tante biografie sono meritevoli di un racconto. Quando ho partorito l’idea di seguire un filone che in televisione abbondava, ho legato l’intervista all’indagine sul lato oscuro del successo personale. Approfondiamo un aspetto della sfera privata, spesso mai emersa prima, che si intreccia all’attualità e alla storia del Paese.

Ne ha interrogati a decine, Gomez, attingendo a mondi tra loro distanti: il capo del Governo Giorgia Meloni, il Presidente del Senato Ignazio La Russa, Giuseppe Conte, Matteo Renzi, Vittorio Sgarbi. Ma anche Bruno Vespa, Alessandro Gassmann, Antonello Venditti, Fedez, Lele Mora, Roberto D’Agostino e tantissimi altri. Tutte figure strettamente legate al passato, al presente e al futuro del Paese.

Quante persone lavorano con lei?
Ormai si tratta di una squadra consolidata. Luca Sommi, coautore del programma, e il resto dell’equipe fanno un’attività incessante di ricerca, approfondimento e organizzazione.

L’intervista meglio riuscita?
Forse la prima in assoluto. Quella a Emilio Fede: per ciò che ha detto, per l’empatia che si è creata, per il risvolto emotivo e coinvolgente con cui ha raccontato di sé. Credo che sia l’incontro che meglio identifichi il programma.

Che ricordo ha della chiacchierata con Maurizio Costanzo?
All’inizio nicchiò. Voleva conoscere preventivamente le domande. Forse per capire se avessi chiesto qualcosa rispetto alle vicende più delicate della sua storia. Gli dissi di no, non gli avrei detto le domande ma gli anticipai che avrei cercato di approfondire anche il lato oscuro. Non replicò, capì e accettò.

Non concorda niente con gli ospiti?
In tanti vorrebbero conoscere in anticipo gli argomenti trattati: dico loro che un personaggio pubblico sa cosa può riservargli una intervista. Evito il gossip, non andrei mai tanto a fondo – con morbosità – nella sfera prettamente privata. Faccio domande ma lascio sempre che a parlare siano le risposte. Il tono non è mai inquisitorio. Posso anche esprimere un giudizio ma lo spettatore va messo nelle condizioni di arrivare autonomamente a una riflessione. E, fatto non scontato, i nostri ospiti non percepiscono alcun cachet.

Chi non è riuscito ancora a intervistare?
Matteo Salvini. Non perché abbia rifiutato: l’ho cercato spesso, non siamo ancora riusciti a concordare.

Arisa, Toninelli e poi? Chi altro si confessa in questa edizione?
Le do altri due nomi. Donatella Rettore e Marco Columbro.

Come sta il Paese? Qual è lo stato di salute?
È destinato al declino economico, demografico e ambientale. Ricorda la storia della rana bollita che finisce viva in un pentolone, appena sente un po’ di tiepido crede di stare bene ma poi non si accorge che la stanno cucinando.

Cosa la preoccupa?
La diseguaglianza che si fa sempre più marcata: la sperequazione tra povertà e ricchezza è più evidente e la parte di popolazione in difficoltà diventa più numerosa. Mi preoccupa il cambiamento climatico, la scarsa attenzione che dedichiamo all’ambiente in cui viviamo. Si tratta di macro problematiche che non interessano solo l’Italia ma tutti i Paesi.

Colpa della politica?
Sarebbe riduttivo. Abbiamo tutti una parte di responsabilità. Il contesto imprenditoriale, la politica, l’informazione: si tratta di colpe condivise e corali che fanno anche i conti con le nostre scelte individuali. Però, la sensazione è che la classe dirigente sia convinta di non poter cambiare o alterare il corso della quotidianità: la riflessione sottintesa sembra sempre la stessa, le cose vanno così, non sono perfette ma comunque vanno. Manca visione prospettica.

Per cosa vale la pena combattere?
Lo specchio. Per quell’immagine che si riflette tutte le volte che ci guardiamo.

di Auden Bavaro


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